Pagina di presentazione di "Mah"
LIBRI
Silvio Garattini, con Roberta Villa, Il guerriero gentile : la mia vita, le mie battaglie, Milano : Solferino, 2019
In questo libro Silvio Garattini, uno dei nomi più autorevoli nel campo della medicina in Italia (e non solo), si racconta e viene raccontato. Alle parti in cui lo studioso ricorda eventi della sua vita ed espone le sue idee si alternano parti, distinte dall'uso del carattere corsivo, scritte da Roberta Villa che ha seguito le sue attività e ha raccolto le testimonianze di persone che hanno collaborato con lui.
Nelle pagine del libro largo spazio è dato, ovviamente, all'Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri, di cui Garattini è stato il fondatore e per oltre cinquanta anni, dalla fondazione fino al 2018, il direttore. L'istituto fu creato per compiere ricerca in campo medico e condividerne apertamente i risultati. In questa ottica rientra la scelta di non porre mai brevetti. Quando nacque il Mario Negri, spiega Garattini, in Italia era in vigore un decreto che vietava di brevettare farmaci, ma anche dopo che quel decreto fu reputato incostituzionale e cancellato, l'istituto non ha voluto mettere brevetti sulle proprie scoperte. I brevetti, sostiene l'autore, possono far perdere libertà nella ricerca (chi ha un brevetto è portato a difenderlo e “diventa difficile, per esempio, portare avanti uno studio che potrebbe svalutarlo”), ostacolano la comunicazione dei risultati e fanno concentrare gli studi sulle linee di ricerca che appaiono produttive a tal fine con il rischio che si possa “trascurare e sottrarre risorse alla ricerca di base, […] terreno indispensabile per la nascita di nuovi indirizzi di studio” (pp.88-89).
All'impegno nella ricerca medica, Garattini ha affiancato quello nella divulgazione. Nel libro ricorda l'importanza di una comunicazione corretta ed efficace (pp.241-250). Nel corso degli anni è stato spesso a parlare in programmi televisivi, talora anche “affrontando i sostenitori di […] pseudomedicine”, con decisione, ma nello stesso tempo con lo stile pacato che lo ha sempre contraddistinto anche nei “duelli in tv” (p.110). Più volte, per esempio, ha spiegato che l'omeopatia è una pratica assurda che i dati hanno mostrato essere inefficace e che può essere anche pericolosa se porta a trascurare le cure vere (pp.106-108). E' stato anche il curatore e uno degli autori di un ottimo libro sul tema (Acqua fresca?, Milano : Sironi, 2015 - lo abbiamo recensito nel n.42, dicembre 2015, di “Mah”).
Garattini ricorda anche due noti casi di presunte terapie che acquistarono una grande popolarità nonostante non ci fosse alcuna prova della loro efficacia e che infatti si dimostrarono alla prova dei fatti un fallimento, il metodo Di Bella, “che proponeva di curare i tumori con un cocktail di vitamine e somatostatina” (p.109), e Stamina, che il suo ideatore, Davide Vannoni, asseriva essere utile anche per malattie gravi come l'atrofia muscolare spinale (Sma) (p.110).
Casi come questi ricordano che un approccio critico è fondamentale. A scuola, sostiene Garattini, si dovrebbero insegnare a bambini e ragazzi non solo le nozioni, ma anche e soprattutto il metodo scientifico (pp.40, 44). Tra i primi ricordi che l'autore condivide con i lettori c'è proprio una sua esperienza di quando era ancora uno scolaro. “Erano gli anni del fascismo,” riferisce, “e io tornavo da scuola riferendo ciò che mi raccontavano in classe”. Il padre lo invitava, però, a dubitare della veridicità di quanto veniva affermato dalla propaganda fascista. “Fu così che cominciò a insegnarmi come sviluppare e avere sempre spirito critico”, scrive Garattini che aggiunge: “è un patrimonio di cui vado fiero e che ha segnato tutta la mia esistenza” (p.10).
L'importanza del metodo scientifico e dello spirito critico emergono anche nelle proposte avanzate da Garattini per la sanità pubblica in Italia: “Una regola fondamentale, a mio parere, è che il Servizio sanitario nazionale dovrebbe fornire solo farmaci e prestazioni la cui efficacia sia scientificamente dimostrata” (p.221; cfr p.230), evitando gli sprechi (p.223).
Un ruolo di primo piano nella strategia del servizio sanitario dovrebbe essere assegnato alla prevenzione, importante innanzitutto in termini di salute per le persone e vantaggiosa anche dal punto di vista economico: “per ogni caso di malattia che riusciamo a prevenire abbiamo un risparmio che non riguarda solo i costi per curarla – i farmaci, gli interventi, i giorni di ricovero in ospedale e così via – ma anche i costi legati alla ridotta produttività per parziale o totale invalidità dell'ammalato, per le assenze dal lavoro sue o di chi lo deve assistere e così via” (p.224). Garattini sottolinea quindi l'importanza delle vaccinazioni (pp.224-225, 245-246) e dell'adottare uno stile di vita sano, ricordando che al diritto di avere una valida assistenza sanitaria dovrebbe corrispondere il dovere di avere cura della propria salute, per esempio evitando di fumare, limitando il consumo di alcool e facendo un'adeguata attività fisica (pp.224, 226). Da parte loro, i medici dovrebbero fare il possibile per spingere i loro pazienti verso tali salutari abitudini (p.228). Alle misure di prevenzione Garattini aggiunge gli interventi per combattere l'inquinamento ambientale, anch'essi ovviamente da valutare sulla base delle prove scientifiche (pp.228-229).
“Poi c'è la ricerca”: per Garattini con “un fatturato di cento miliardi l'anno non è pensabile che [il Servizio sanitario nazionale] non abbia un adeguato programma di ricerca, perché il sistema è così complesso che non ti puoi fidare solo della ricerca altrui. Occorre una ricerca interna e indipendente” su farmaci e interventi e anche sulle modalità organizzative (p.230).
Un “elemento che credo vada abolito completamente”, scrive l'autore, “è la possibilità di ricevere privatamente in ospedale, come previsto dalle regole dell'intra moenia. […] Trovo scandaloso che chi ha maggiori disponibilità economiche possa essere visitato all'interno dell'ospedale prima degli altri, dagli stessi professionisti, sfruttando le stesse apparecchiature, nello stesso ambiente, mentre chi non può resta in lista d'attesa” (p.231; cfr p.237).
Un capitolo del libro è dedicato a scienza e religione. La religione “è fideistica per definizione”, mentre la scienza “per sua missione vuole cercare di fare chiarezza su ciò che non si conosce”. Si tratta dunque di “ambiti diversi”, ma che, scrive Garattini, “non sono in contrapposizione finché ciascuna rimane nel suo campo” e “nello stesso individuo possono benissimo coesistere” (p.34). D'altra parte, dice l'autore, da un punto di vista scientifico “l'affermazione ateistica mi sembra tanto infondata quanto quella fideistica” (p.35). Secondo Garattini, dal punto di vista della scienza “la posizione più idonea è il dubbio: non ho la possibilità di esplorare o capire se Dio esiste o no” (p.34) o se c'è o meno una vita dopo la morte (pp.36-37). L'autore ritiene che “al di là delle deviazioni che ci sono state […] il cristianesimo sia un bene” (p.37) e che scienza e religione possano lavorare insieme per obiettivi comuni come “proteggere l'ambiente, difendere la dignità dell'uomo, fare in modo che sia garantito a tutti i diritto alla salute, che si riducano le sofferenze, che ci sia meno povertà” (pp.35-36).
Matthew L. Tompkins, La grandissima illusione : magia, paranormale e inganni della mente, edizione italiana a cura di Valentina Vignoli, traduzione di Alberto Frigo, Modena : Logos, 2019
Con testi ben documentati e con un ricchissimo apparato di illustrazioni il libro presenta la storia degli “inganni della mente”, quelli truffaldini di veggenti, spiritisti, medium e simili personaggi e quelli onestamente presentati come giochi di prestigio dagli illusionisti.
Nel primo capitolo compaiono nomi celebri e meno famosi del mondo del paranormale ottocentesco: Andrew Jackson Davis, il veggente di Poughkeepsie che sosteneva che su Saturno ci fossero esseri con facoltà da sensitivi e che si potessero far nascere organismi viventi da polvere di gesso scaldata (p.19), le famose sorelle Fox (pp.19, 26-27) che, con i loro trucchi, aprirono una strada “per i ciarlatani e i truffatori che cercavano di approfittare dell'ultima tendenza” (p.49), medium come William Eglinton, Daniel Dunglas Home, madame d'Esperance (p.36) e l'italiana Eusapia Palladino (pp.36-43), i produttori di fotografie spiritiche William H. Mumler (p.43) e Édouard Isidore Buguet (pp.43,49). Mumler, finito a processo, trovò come testimone dell'accusa il famoso impresario dello spettacolo P. T. Barnum convocato in qualità di esperto di contraffazioni. Anche Buguet finì in tribunale. Dopo la condanna che gli fu inflitta proseguì a produrre foto spiritiche, ma presentandosi come un illusionista. La spiritista Victoria Woodhull fu anche una suffragista e si candidò alle elezioni presidenziali del 1872 (p.49).
Il secondo capitolo è dedicato ai “maestri dell'illusionismo”. Come ricorda Thompson, “ La storia dell'illusionismo è strettamente intrecciata allo scetticismo nei confronti dei fenomeni magici o paranormali” (p.54). Un precursore in questo campo è Reginald Scot che già nel XVI secolo spiegava in un suo libro come effetti attribuiti a magia e stregoneria fossero in realtà il prodotto di trucchi (p.54). Nell'Ottocento l'illusionista John Nevil Maskelyne mostrò di essere in grado di riprodurre con giochi di prestigio i presunti prodigi medianici dei fratelli Ira e Wiliam Davenport e “fu convocato in veste di esperto in alcuni processi connessi a truffe spiritiche”, come quello a carico di Henry Slade che, usando un trucco, voleva far credere di poter ottenere che gli spiriti dei defunti lasciassero dei messaggi su lavagnette (pp.66, 73, 124).
Un caso particolare fu quello di Washington Irving Bishop che fu il manager della medium Anna Eva Fay, ma, in seguito al deterioramento dei rapporti tra i due, “definì la medium una truffatrice e cominciò a eseguire uno spettacolo per conto proprio, promettendo di smascherare tutti i trucchi dell'ex sodale” (p.103).
Tra i prestigiatori che si impegnarono a smascherare fenomeni truffaldini si deve certamente citare il famosissimo Harry Houdini. La sua competenza in materia di illusionismo gli suggeriva come controllare i medium. Un diffuso modo per convincere i partecipanti alla seduta medianica che fosse presente uno spirito era quello di tenere nella stanza strumenti musicali che, durante la seduta, al buio richiesto dal medium, emettevano dei suoni che venivano attribuiti all'azione dello spirito. Houdini, quando gli capitò di partecipare a una seduta che prevedeva tale dimostrazione, “ricoprì di nascosto gli strumenti di nerofumo”. Dopo che si era sentito il suono degli strumenti, l'illusionista “accese le luci, mostrando il medium con le labbra e le mani ricoperte di nero” (p.93). Tra i personaggi smascherati da Houdini ci fu Joaquín Argamasilla, “lo spagnolo dagli occhi a raggi X” che affermava di poter leggere, bendato, messaggi chiusi in scatole sigillate. Houdini dimostrò che si trattava di un trucco (p.92). Ben noto è il suo “duello” con Mina Crandon, la medium conosciuta con il nome Margery: Houdini, anche in questo caso, dimostrò che non c'era nulla di soprannaturale nelle seduta della medium e che tutto quel che accadeva di strano era semplicemente ottenuto con trucchi (p.93).
Come ricorda Thompson nel terzo capitolo del libro, a dar credito alle illusioni dello spiritismo e del paranormale furono anche scienziati che pur avevano dimostrato nel loro campo di studi ottime capacità, come il fisico Oliver Lodge (p.108), il naturalista Alfred Russel Wallace (pp.108-109, 137), l'astronomo Nicolas Camille Flammarion (p.109). William Crookes di distinse per i suoi studi di chimica e fisica, ma si interessò anche allo spiritismo e sostenne che le prove che aveva fatto con medium come Daniel Dunglas Home, Kate Fox, Florence Cook e Anna Eva Fay dimostravano che le loro facoltà medianiche erano reali. Fay, peraltro, anni dopo raccontò come aveva ingannato Crookes eseguendo dei trucchi (pp.115, 120-121, 124-125).
Il fisico Johann Karl Friedrich Zöllner volle studiare in modo da lui ritenuto scientifico i presunti poteri del già citato Henry Slade e concluse che erano autentici (pp.124-125, 129, 132). Wilhelm Wundt, che era stato tra gli invitati ad assistere ai test, ebbe un'impressione opposta: Slade ingannava Zöllner usando dei trucchi. Wundt, scrive l'autore, “era anche dell'idea che i fisici non fossero i più qualificati a rilevare frodi” se, quando Slade avvicinando la mano a una bussola faceva ruotare l'ago, non pensavano che, prima di discutere ipotetiche forze legate alle presunte facoltà del personaggio in questione, sarebbe stato meglio controllare le sue maniche per vedere se vi nascondeva un magnete. Le perplessità espresse da Wundt non portarono a un ripensamento Zöllner che, anzi, si infuriò contro di lui (p.132).
Richard Hogdson e Samuel John Davey inscenarono delle sedute spiritiche per studiare l'attendibilità delle testimonianze. Davey, che aveva buone capacità come illusionista, si fingeva un medium che invitava gli spiriti a scrivere i loro messaggi su una lavagnetta. Alla fine veniva chiesto agli spettatori di fare un resoconto scritto dello svolgimento della seduta. Hodgson e Davey notarono che, “di norma, gli scritti omettevano elementi essenziali delle sedute”, come il fatto che il finto medium, dopo aver mostrato che la lavagna era pulita, la poneva sotto il tavolo e da lì, apparentemente, la riprendeva per porla nuovamente sul tavolo. La mossa sarebbe dovuta risultare sospetta (e infatti Davey sostituiva la lavagna di cui aveva mostrato entrambi i lati facendo vedere che non recava alcuna scritta con un'altra su un cui lato era scritto un messaggio), ma “i resoconti dei partecipanti tralasciavano sistematicamente di accennare al fatto che la lavagna era stata messa sotto il tavolo”. Alfred Russel Wallace, che fu uno dei partecipanti, non volle credere che ci fosse un trucco neppure quando Hodgson e Davey lo rivelarono (pp.132, 136-137).
Joseph Banks Rhine, ricordato nel quarto capitolo del testo, fondò un laboratorio di parapsicologia alla Duke University. In particolare, Rhine, convinto che esistessero facoltà paranormali, condusse esperimenti con le “carte Zener” (dal nome di Karl Edward Zener, che le aveva ideate). Sulle carte c'erano cinque simboli e ai partecipanti veniva chiesto di intuire, senza vederlo, quale simbolo recasse una carta. I suoi esperimenti, condotti per anni, non diedero mai risultati validi (pp.167, 178-179, 186). Ben diversa è l'impostazione di James Randi, l'illusionista canadese diventato celebre per il suo impegno nello smascherare le affermazioni del paranormale e della pseudoscienza (pp.187, 192).
I nostri sensi possono ingannarci, come avviene con le illusioni ottiche di cui Thompson tratta nel quinto capitolo di questo libro che è senza dubbio una lettura interessante.
LIBRI
Harry Bellet, Falsari illustri, traduzione di Eileen Romano, Milano : Skira, 2019
Il libro presente le storie di alcuni falsari nel campo dell'arte.
Nel 1896 il Louvre annunciò di avere acquisito alcuni esemplari di antica oreficeria tra i quali una tiara donata a un re di nome Saitaferne. Anni dopo Izrail' Ruchomovskij, un orafo di Odessa, vedendo un'immagine della tiara si rese conto che era un'opera che aveva eseguito per commissione di un tale Chapsel Hochmann (pp.13, 37-42).
Han van Meegeren (pp.43-50) è noto per i suoi falsi Vermeer. Per dipingerli doveva ovviamente imitare in modo credibile lo stile del pittore, ma anche curare la scelta dei materiali e le procedure: trovare un quadro dei tempi di un autore meno quotato (e quindi il cui prezzo fosse decisamente inferiore a quello a cui avrebbe poi potuto vendere il suo falso), raschiare il colore, dipingere la nuova opera con pigmenti che fossero in uso ai tempi dell'artista cui voleva attribuirla, “invecchiarla” facendo apparire le piccole crepe che nel corso dei secoli si erano prodotte sui quadri autentici. Il risultato fu convincente, tanto che Meegeren ebbe qualche difficoltà quando gli toccò dimostrare che uno dei suoi falsi era, per l'appunto, un falso da lui creato: l'opera era finita nella collezione di Hermann Göring e Meegeren rischiava la pena di morte per collaborazionismo se fosse stato giudicato colpevole di aver venduto al generale nazista un'opera di Vermeer.
Fernand Legros (pp.51-64) vendeva dipinti, qualcuno autentico, ma soprattutto falsi, per i quali “manteneva un vero e proprio vivaio di falsari”, tra i quali Réal Lessard e Elmir de Hory (p.53). Legros era abile a procurarsi certificati di autenticità o dalle vedove degli artisti (p.54). Secondo un aneddoto raccontato da Lessard (sulla cui attendibilità è comunque lecito avere qualche dubbio), Legros sarebbe addirittura riuscito a fare autenticare un falso che voleva far passare come opera del pittore Kees van Dongen dall'artista stesso (p.55).
Eric Hebborn (pp.65-71) si specializzò nel fare disegni da fare “passare per schizzi preparatori di dipinti noti dei maestri che copiava” (p.65). Dopo che la sua attività di falsario era venuta alla luce, Hebborn affermò che diversi suoi falsi erano ancora nei musei, tenuti come autentici. Un suo ex compagno, comunque, sosteneva che “i ricordi di Hebborn erano in gran parte fantasiosi” e che “arrivava persino ad attribuirsi disegni perfettamente autentici” (p.70).
John Myatt e John Drewe (pp.73-80) lavoravano in coppia. Myatt aveva un certo talento nell'imitare le opere di diversi artisti, anche se i suoi dipinti, se esaminati debitamente, “non avrebbero dovuto ingannare gli esperti” (p.73). A differenza di altri falsari, Myatt non si preoccupava troppo di usare materiali e procedure che non tradissero la reale data di esecuzione, confidando nel fatto che le sue creazioni non sarebbero sottoposte a esami rigorosi, dato che sarebbero state accompagnate da “prove della loro autenticità” (p.74). Qui entrava in gioco Drewe che andava a consultare gli archivi dei musei e infilava tra le carte documenti falsi da lui realizzati con riferimenti ai falsi realizzati dal complice (p.74).
Shaun Greenhalgh (pp.81-89) realizzò numerosi falsi, tra i quali una statua fatta passare per un'opera egizia del periodo di Amarna, diventata nota come “la principessa di Amarna”. Procuratisi un catalogo del 1892 in cui si parlava genericamente della vendita di “otto figure egizie”, i genitori portarono la statua al museo di Bolton dicendo di averla ricevuta in eredità insieme al catalogo. L'opera di Greenhalgh ingannò gli esperti e il museo la acquistò per 440.000 sterline (pp.86-87).
Una galleria di grande tradizione, Knoedler, fu travolta da una vicenda di falsi (pp.91-97). Una tale Glafira Rosales riuscì a piazzare una serie di opere attribuite ad artisti rinomati, ma che erano in verità state realizzate da Pei-Shen Qian, “un uomo coscienzioso” che “si documentava con grande cura” sugli artisti che imitava (p.94). Pei-Shen Qian rifiutò l'etichetta di falsario, affermando che aveva dipinto su commissione delle opere sullo stile di alcuni artisti, ma senza sapere che sarebbero stati spacciati per loro autentiche opere (pp.96-97). In ogni caso, tornato in Cina, era “lontano dalle autorità americane” (p.97).
Massimo Polidoro, Il mondo sottosopra, Milano : Piemme, 2019
Il “mondo sottosopra” di cui parla il titolo è quello delle bufale e in particolare del complottismo, la mania di vedere trame segrete inesistenti che sarebbero portate avanti da malvagi poteri occulti. Ovviamente manovre losche vengono realmente compiute. Polidoro ricorda alcuni esempi tra i quali quello del Watergate (pp.25-28). Questo episodio della storia degli Stati Uniti offre all'autore uno spunto per mettere a confronto il lavoro dei giornalisti Bob Woodward e Carl Bernstein dello “Washington post” che svelarono lo scandalo con un'indagine nella quale si impegnarono “verificare ogni affermazione prima di renderla pubblica”: l'esatto contrario del “rimestare nel fango” dei complottisti che non si preoccupano di controllare la veridicità delle informazioni che trovano, o magari inventano, se corrispondono alle loro strampalate idee e ignorano le prove che le contraddicono (p.28).
Le idee dei complottisti creano un mondo di fantasia, ma possono anche “avere conseguenze pesanti sul mondo reale” (p.37). Polidoro cita come esempio l'incredibile caso conosciuto con il nome di Pizzagate (pp.35-38). Un uomo, credendo reali le voci secondo le quali nei sotterranei di una pizzeria sarebbero stati rinchusi bambini sfruttati per la prostituzione, aveva fatto irruzione armato nel locale con l'intento di liberare gli inesistenti prigionieri. Per fortuna, nessuno si fece male, anche se il proprietario del locale fu scosso dall'incursione e, per stare tranquillo, dovette ingaggiare delle guardie armate. L'autore dell'irruzione fu condannato a quattro anni di carcere.
Dopo la strage di Sandy Hook, causata da un ragazzo che in una scuola sparò contro il personale e i bambini uccidendo 27 persone e poi commise suicidio, arrivò puntuale la delirante testi complottista secondo la quale si sarebbe trattato di una messa in scena che avrebbe avuto il fine di dare un pretesto per porre limitazioni sul possesso di armi. Queste sciocchezze, già di per sé prive di rispetto per le vittime e i loro familiari, spinsero alcune persone addirittura a importunare i genitori dei bambini morti nella sparatoria accusandoli di recitare una parte. Uno dei genitori, per sfuggire a queste vessazioni, era stato costretto a cambiare casa più volte e, non potendo più tollerare questi vergognosi attacchi, aveva infine denunciato per diffamazione una donna da cui aveva ricevuto ripetutamente offese e minacce e gli autori dello squallido libro Nobody died at Sandy Hook (pp.138-145).
Tra le teorie del complotto ricordate nel libro ci sono quella delle “scie chimiche”, secondo la quale le scie di condensazione degli aerei sarebbero un mezzo per diffondere sostanze nocive (pp.136-138), quella del “piano Kalergi” che, secondo chi sostiene questa assurdità, sarebbe stato ideato per sostituire gli europei con meticci (pp.145-147), e quella denominata “Q Anon”. Quest'ultima immagina l'esistenza di un potente gruppo che, agendo nell'ombra, controlla la politica statunitense e gestisce una rete di pedofilia. In questa folle narrazione, Donald Trump ha il ruolo dell'eroe che combatte queste losche trame (pp.212-220).
Un capitolo è dedicato alla pseudoscienza nel campo della medicina, dove può essere ovviamente assai pericolosa. Si parla di presunte cure miracolose come il siero Bonifacio (pp.155-156), il metodo Di Bella (pp.156-158), la Nuova medicina germanica di Ryke Hamer (pp.158-162), Stamina (pp.162-167). Alcune pagine sono dedicate a Adriano Panzironi, un personaggio che ha ottenuto grande popolarità proponendo una dieta (comprendente integratori da lui venduti) che, a suo dire, potrebbe far raggiungere i 120 anni di età (pp.169-172). Tra le bufale più nocive va annoverata quella secondo la quale il vaccino trivalente causerebbe l'autismo, una bufala che, nonostante gli studi a riguardo l'abbiano completamente smentita, continua ad avere un certo seguito (pp.181-183).
Polidoro sottolinea a ragione che un “deleterio effetto delle teorie della cospirazione è quello di deviare l'attenzione verso pericoli immaginari o infondati distogliendola dalle minacce autentiche” (p.253). Un esempio lampante è proprio quello degli antivaccinisti che parlano di collusioni tra case farmaceutiche e governi per far vendere i vaccini che, a loro dire, sarebbero pericolosi, mentre il vero pericolo per la salute delle persone sono, al contrario, proprio le assurde testi da loro sostenute.
Un capitolo del libro è dedicato a chi tenta, per motivi diversi, di negare dei fatti, come coloro che hanno cercato di negare i danni del fumo (pp.259-261), quelli che affermano che non esiste il riscaldamento globale (pp.261-269), gli inqualificabili negazionisti dell'Olocausto (pp.272-273) e del massacro degli Armeni in Turchia e della persecuzione dei Rohingya in Birmania (p.274), gli antievoluzionisti (p.270), quelli che sostengono che le missioni lunari sono un falso (pp.274-278).
Come contrastare complottismi e pseudoscienze? L'autore scarta senza esitazioni l'idea che siano “i governi a stabilire per legge quali sono le comunicazioni accettabili e quali no”, ritenendo che sarebbe “un orrore, se mai si arrivasse a tanto” (p.315). La questione è complessa e certamente ciò non sfugge a un osservatore acuto come Polidoro che, d'altra parte, non nega che contro i contenuti lesivi per le persone sia legittimo agire: “per fortuna, la legge tutela già dalla diffamazione e dalla calunnia, anche sul web, senza bisogno di leggi speciali” (p.316).
Polidoro prende come esempi di due diverse modalità nella lotta alle false informazioni Roberto Burioni, virologo dallo stile irruento, e Roberta Villa, che usa un tono più conciliante per tentare di raggiungere coloro che sono indecisi. Qual è il metodo migliore? L'autore cita la giornalista Anne Applebaum che “si chiede se alla fine non abbiano ragione entrambi […]. Potrebbero esserci persone che hanno bisogno di affermazioni decise da parte di un vero esperto e altre che invece ascolteranno più facilmente chi si pone in maniera meno aggressiva”. Usare più tattiche, insomma, potrebbe essere la scelta migliore (p.311).
L'autore discute anche un dubbio che è stato avanzato nelle discussioni sul debunking, ovvero se “siamo sicuri che smontare una bufala dietro l'altra serva per davvero” (p.318) e se addirittura, come suggeriscono alcuni studi, le smentite potrebbero persino avere un effetto negativo, dato che le persone, passato del tempo, potrebbero ricordare la notizia falsa citata e non la sua confutazione (pp.320-321). Per evitare eventuali rischi di questo tipo, Polidoro suggerisce di “porre l'accento sui fatti e non sulla bufala” (p.325), menzionando quest'ultima il meno possibile (pp.321-322).
Secondo l'autore, non è necessariamente un bene proporre una grande mole di informazioni. In un certo contesto potrebbe essere più efficace un intervento più snello che si concentri su pochi punti importanti (pp.322, 325). Una buona idea per contrastare la diffusione di una bufala potrebbe essere “mostrare le motivazioni di chi l'ha diffusa” (p.325).
Senza dubbio Polidoro ha ragione quando scrive che “smontare le bufale” dovrebbe essere “solo un passaggio di un processo molto più complesso per rendere le persone più attente e critiche” (p.327).
In un'appendice di un centinaio di pagine, l'autore esamina una delle più note teorie del complotto, quella riguardante l'assassinio del presidente statunitense John Fitzgerald Kennedy (pp.351-459).
Omar Beltran, Sport quantico : una visione quantistica del mondo dello sport, Milano : Anima, 2019
Secondo questo libro, una “visione quantistica” sarebbe di aiuto nell'approccio psicologico allo sport. L'autore, parlando di fisica quantistica, si riferisce però in realtà a quelle idee che utilizzano impropriamente termini scientifici per lanciarsi in discorsi sulla motivazione e/o sulla spiritualità.
Nel libro si leggono affermazioni di questo tipo. A titolo di esempio si può prendere questa: “oggi, grazie agli avanzamenti della ricerca nella fisica quantistica sappiamo che quell'energia è lì, nel campo delle infinite possibilità, disponibile a chiunque si sintonizzi con la sua frequenza.” (p.25). Nella frase compaiono termini propri della fisica come “energia”, “campo” e “frequenza”, ma vengono usati in un modo che non ha alcun senso.
Beltran riprende dai sostenitori del “misticismo quantistico” l'idea che la meccanica quantistica, rilevando che “l'intervento dell'osservatore modificava l'evento osservato” (p.39), avrebbe dimostrato che è “la nostra intenzione, in quanto osservatori della realtà, a co-crearla” (p.40). Che l'atto dell'osservazione influisca sui sistemi osservati, però, non significa affatto che il risultato corrisponda all'intenzione dell'osservatore (che potrebbe essere anche uno strumento di misurazione automatico senza alcuna “intenzione”).
Decisamente strampalata è l’idea che tra le “implicazioni della Fisica Quantistica”, e in particolare dell’entanglement, ci sia la telepatia (p.207).
L'autore stesso afferma peraltro esplicitamente, con un'espressione colorita, di non capire nulla di fisica quantistica (p.36). Non si capisce, allora, perché abbia voluto scrivere un libro che fa riferimento ad essa.
Beltran non è impeccabile neppure con la fisica classica. Scrive che “i nove virgola ottantuno metri per secondo al quadrato sono la velocità unica della gravità” (p.82), ma una velocità si esprime in metri per secondi, mentre la grandezza espressa in metri per secondi al quadrato è un'accelerazione. Quello che cita è infatti il valore approssimato dell'accelerazione (non velocità) di gravità.
Che un atteggiamento ottimista possa essere d'aiuto non è una considerazione particolarmente originale, ma può avere senso. Non ha invece alcun senso che l'autore parli di una “energia positiva” (p.20) facendo riferimento ai protoni. Che la carica dei protoni sia definita positiva non ha ovviamente nulla a che fare con l'uso del termine “positivo” per definire un atteggiamento umano.
Come altri autori di testi di “auto aiuto” (“Questo manuale è, a tutti gli effetti, un manuale di auto aiuto” - p.26), Beltran ha tra i suoi riferimenti la programmazione neurolinguistica (pp.19, 113, 140, 142, 150, 211), una pratica che non ha mai dato prove affidabili di validità.
Anche se scrive di avere una “forma mentis [...] plasmata dal metodo scientifico” (p.201), Beltran fa in realtà riferimento ad autori che sono divulgatori di affermazioni pseudoscientifiche come Bruce Lipton (pp.95-97), Roberto Giacobbo (p.97), Lynne McTaggart (pp.194-197), Harold Puthoff (p.196), Gregg Braden (p.197), Fabio Marchesi (pp.210-211).
Quando finalmente nomina un vero scienziato, Albert Einstein, va persino peggio. Secondo Beltran, il padre della teoria della relatività avrebbe affermato: “non sappiamo quale energia ci fa vedere, sentire, parlare e pensare. E quel che è peggio, non ce ne importa nulla. Eppure noi siamo quell'energia” (p.241). Ovviamente queste parole, che possono far colpo su qualche seguace delle idee new age, ma non hanno in realtà alcun significato scientifico, non sono di Einstein.
Pseudoscienza
Se nel tennis ha raggiunto il numero 1 nel ranking mondiale, in fatto di razionalità Novak Djoković non è invece un campione.
Il tennista serbo racconta che il nutrizionista Igor Četojević gli aveva chiesto di prendere in mano una fetta di pane e di tenerla vicino allo stomaco e aveva quindi esercitato una pressione sul braccio. Per la kinesiologia applicata, una minore resistenza muscolare rivelerebbe un'intolleranza. Si tratta di un metodo senza alcun valore, ma Djoković è convinto che, quando il pane era vicino allo stomaco, il suo braccio “faticava a opporsi alla pressione”, segno, a suo dire, che il pane, e in particolare il glutine, era per lui come kryptonite (l'immaginaria sostanza che fa perdere le forze a Superman). Secondo il tennista, anche tenere un telefonino vicino allo stomaco ha lo stesso effetto: “la radiazione del cellulare induce nel corpo una reazione negativa e indebolisce il braccio” (1).
Il “glutine presente nel grano geneticamente modificato”, secondo Djoković, sarebbe “strutturalmente diverso da qualsiasi sostanza esistente in natura”. Il tennista aggiunge anche un po' di complottismo: “a manipolarvi saranno i produttori di cibo e le aziende farmaceutiche, che vogliono farci mangiare più grano possibile”. “Più cereali”, sentenzia, “significa più malattie […] e quindi più medicine. […] I produttori di cibo si arricchiscono insieme alle case farmaceutiche, e noi ci ammaliamo sempre di più” (2). Djoković ritiene che gli alimenti risentano delle emozioni delle persone e cita come “prova” (virgolette d'obbligo) le strampalate idee di Masaru Emoto (3).
Djoković ha accolto tra i suoi riferimenti Pepe Imaz, ex tennista diventato una sorta di guru con lo slogan “amore e pace”, e Chervin Jefariah, un seguace di Emoto. Il tennista serbo ha affermato di conoscere delle persone che con la “trasformazione energetica” e la preghiera “sono riuscite a trasformare il cibo più tossico e l'acqua più inquinata”, il che sarebbe possibile perché i pensieri positivi “creano una struttura molecolare che ha un geoprisma basato sulla geometria sacra”. Se da un lato Djoković ha preso per buone queste assurdità, dall'altro non ha visto con favore l'ipotesi che, quando fosse disponibile un vaccino contro il nuovo coronavirus, ai tennisti sia chiesto di farlo per poter partecipare ai tornei. Alle critiche ricevute su questa posizione, ha risposto in modo non troppo convincente dicendo di non essere un “no vax per principio”, ma di essere contrario all'obbligo, e ha aggiunto di avere dei dubbi sulla possibilità di “risolvere il problema” in questo modo dato che “il virus […] muta continuamente” – un argomento proposto spesso da coloro che si improvvisano virologi in internet. Anche la moglie di Djoković sembrerebbe incline a credere ad affermazioni pseudoscientifiche: sul suo account Twitter è stata condivisa la bufala che collega la pandemia da coronavirus al 5G (4).
Invece di credere a pericoli inesistenti, in casa Djoković avrebbero fatto bene a prestare più attenzione ai rischi reali del Sars-CoV-2. Con la pandemia in corso, infatti, Djoković ha organizzato l'Adria Tour, una serie di incontri di tennis, senza prevedere il distanziamento sociale e l'uso della mascherina in campo e fuori per giocatori e altre persone con vari compiti legati all’evento e per il pubblico (5). Il tennista bulgaro Grigor Dimitrov, che aveva partecipato al torneo, sentendosi stranamente affaticato aveva fatto il test ed era risultato positivo. Solo a questo punto il torneo è stato fermato (6). Anche Djoković e sua moglie sono risultati positivi al virus, così come i tennisti Borna Ćorić e Viktor Troicki (7).
Se la faciloneria di Djoković è stata a ragione criticata, è corretto comunque ricordare anche che quando Bergamo è stata colpita duramente dalla pandemia il tennista ha fatto una consistente donazione a ospedali della zona e ha donato notevoli somme per affrontare la malattia anche in Serbia (8).
(1) Novak Djokovic, Serve to win, New York : Zinc Ink, 2013, pp.23, 30; trad. it. di Ilaria Katerinov, Il punto vincente, Milano : Sperling & Kupfer, 2014, pp.24, 32.
(2) Djokovic, Serve to win, cit., pp.37-38; trad. it. cit., p.41.
(3) Djokovic, Serve to win, cit., pp.60-61; trad. it. cit., p.69.
(4) Gaia Piccardi, «Io non mi vaccino» Djokovic segue il guru che dice: la pandemia è un periodo eccitante, “Corriere della sera”, 10 maggio 2020, p.27; Franck Ramella, Djokovic, le zen émoi, “L'Équipe”, 9 maggio 2020, p.15; Richard Lewis, It is a no-vac from Djokovic, “Daily star”, 21 aprile 2020, p.38; Lucile Alard, Djokovic omniprésent et clivant, “L'Équipe”, 23 giugno 2020, p.3; José Morgado, Djokovic do céu ao inferno, “Record”, 24 giugno 2020, p.29; Gaia Piccardi, Djokovic tra Covid e US Open «Tennis e feste? Rifarei tutto», “Corriere della sera”, 22 agosto 2020, p.41; Riccardo Crivelli, Nole, ricominciamo, “La Gazzetta dello sport”, 22 agosto 2020, p.30.
(5) Marco Calabresi, US Open, decisione rinviata. Il bagno di folla di Djokovic in Serbia apre le polemiche, “Corriere della sera”, 16 giugno 2020, p.53; Federica Cocchi, A contatto con un positivo. Paura per Djokovic in Serbia, “La Gazzetta dello sport”, 16 giugno 2020, p.28.
(6) Bertrand Lagacherie, Dimitrov jette un froid, “L'Équipe”, 22 giugno 2020, p.23.
(7) Gaia Piccardi, Djokovic diventa «DjoCovid». Parabola di un campione, positivo, “Corriere della sera”, 24 giugno 2020, p.15; Riccardo Crivelli, DjoCovid, “La Gazzetta dello sport”, 24 giugno 2020, pp.28-29; José Morgado, Djocovid, “Record”, 24 giugno 2020, p.29; Paolo Rossi, L'incredibile doppio fallo di Nole l'atleta maniaco della salute tradito dalle sue convinzioni, “La Repubblica”, 24 giugno 2020, p.15.
(8) A. Poss., Da Djokovic donazione a ospedali bergamaschi, “Avvenire”, 16 aprile 2020, Lombardia, p.III; Paolo Rossi, L'incredibile doppio fallo di Nole l'atleta maniaco della salute tradito dalle sue convinzioni, “La Repubblica”, 24 giugno 2020, p.15.
LIBRI
Fabio Paglieri, La disinformazione felice, Bologna : il Mulino, 2020
Il titolo del libro vuole indicare l'intenzione di proporre “un radicale ribaltamento di prospettiva sul tema della disinformazione online”: le bufale, secondo l'autore, dovrebbero essere viste come un “patrimonio da valorizzare” (p.8), “come ottime opportunità educative, anziché come mostri da abbattere” (p.177, corsivo dell'autore; cfr p.50) e si può essere “felici, dunque, non a dispetto delle bufale, ma proprio grazie ad esse” (p.8). Che analizzare una bufala possa essere una “opportunità educativa”, un'occasione per apprendere e insegnare il metodo scientifico e l'approccio critico, è sicuramente vero. Questo non significa, però, che si debba essere felici della diffusione di affermazioni infondate, specialmente in casi come le bufale sulla salute o con contenuti razzisti. D'altra parte l'autore stesso scrive che la diffusione di affermazioni infondate può anche “produrre tragedie di varia entità” (p.8) e il suo invito a una “disinformazione felice”, che contiene certamente una buona dose di provocazione, non va quindi preso strettamente alla lettera.
Secondo Paglieri, le “narrazioni terroristiche sugli effetti nefandi della disinformazione” hanno anche l'effetto di far scomparire “la responsabilità personale dei diretti interessati” (p.12) in modo tale che chi, avendo abboccato a una bufala, adotta comportamenti non consoni o addirittura pericolosi viene visto non come colpevole di tali atti, ma come “povera vittima di cattivi profeti online” (p.13). L'autore porta l'inquietante esempio di Edgar Maddison Welch che, credendo a un'assurda storia complottista secondo la quale nei sotterranei di una pizzeria c'erano bambini tenuti prigionieri e sottoposti ad abusi, aveva fatto irruzione nel locale con un fucile. “A sparare quel giorno”, scrive Paglieri, “non è stata una bufala, bensì una persona”. L'autore ha certamente ragione nel sostenere che una persona che entra in una pizzeria sparando non può essere giustificata dicendo che “lo ha fatto solo perché lo aveva letto in rete” (p.12). La contrapposizione tra “bufala” e “persona” è però forzata. La bufala è comunque creata e diffusa da persone. Nel caso in questione si tratta inoltre di falsità dai contenuti fortemente diffamatori e sarebbero gravi anche se non fossero arrivate a ispirare un'azione pericolosa come l'incursione di Welch.
Le bufale non sono certo un fenomeno limitato ai tempi recenti. Alcuni autori, però, “preferiscono leggere la disinformazione odierna in termini di discontinuità col passato, anche netta” (p.19, corsivo dell'autore) e contrassegnano i nostro tempi come l'era della “postverità”. Paglieri ritiene invece che ci sia una continuità, “pur con tutte le accelerazioni caratteristiche della contemporaneità e in larga parte legate a mutamenti sociotecnologici” (p.19), e ritiene che quella di “postverità”, pur se molto celebrata (l'Oxford English Dictionary l'aveva persino proclamata “parola dell'anno” del 2016), sia una “nozione confusa e poco utile” (p.20). Non è nuovo il fenomeno, sostiene l'autore, ma il modo in cui se ne parla (p.21). “Di bufale la rete è piena”, ma, argomenta Paglieri, ad aumentare in modo notevole è stata in generale l'informazione disponibile, valida o meno che sia (pp.138-140). Secondo l'autore, il problema non è che l'informazione sia nel complesso peggiore che in passato, ma che è molta di più e una tale quantità è difficile da gestire (p.171).
Paglieri è tra coloro che ritengono che il debunking, ovvero l'attività di esaminare e smentire le bufale, non sia utile per far cambiare idea ai sostenitori di asserzioni infondate e che anzi possa risultare persino dannoso, portando non all'abbandono, ma, per contrasto, a una radicalizzazione delle posizioni (pp.46, 147). Certamente sarà difficile, anche con le argomentazioni più accurate, convincere i fan più accaniti di idee complottiste e pseudoscientifiche e costoro potrebbero, anzi, vedere l'impegno profuso per smentirle “come prova ulteriore di losche trame di misteriosi poteri” (p.101). Ci sono anche casi, però, in cui una persona dà credito a una bufala semplicemente perché non si è posto il problema di verificarne l'attendibilità, ma non ha motivazioni o convinzioni che lo portino a rifiutarsi di prendere in esame e accogliere una smentita.
L'autore ritiene che i siti che si occupano di debunking possano essere utili non tanto per convincere chi crede alle bufale che smentiscono, ma piuttosto quando, sospettando di un'affermazione, “si ha poco tempo e ci si vuole fare rapidamente un'idea”. Sarebbero quindi, a suo parere, “solo […] scorciatoie temporanee, utili soprattutto per chi ne ha meno bisogno, in quanto ha già sviluppato quel barlume di cautela che porta a fermarsi e riflettere” (p.102).
Paglieri sostiene dunque che il debunking non serva a convincere gli altri, ma ritiene che sia invece “meritorio e assolutamente benefico” se “praticato in proprio” per “accertare in prima persona l'attendibilità o meno delle informazioni” (pp.148-149). A ragione scrive che imparare ad analizzare criticamente le affermazioni in cui ci si imbatte è “la via maestra per crearci una migliore nicchia” nella “ecologia dell'informazione” (p.154).
Paglieri è in disaccordo con chi invoca leggi specifiche contro le fake news e la disinfomazione online e si schiera con coloro che fanno notare che già esistono leggi che puniscono diffamazione, furto d'identità e altre azioni dannose, ritenendo che bastino queste norme (p.219).
L'autore cita la proposta avanzata da Giuseppe Riva (nel libro Fake news, recensito nel n.55, del marzo 2019, di “Mah”) di istituire un patentino per poter usare i social media, ritenendo che sia “da considerarsi più una provocazione intellettuale” e che se fosse invece intesa come “una seria ipotesi legislativa […] andrebbe rigettata senza esitazione”, sottolineando giustamente i problemi etici, giuridici e pratici di una tale soluzione che “crea più problemi di quanti vorrebbe risolverne” (p.230).
Giustificato pare anche lo scetticismo dell'autore nei confronti del Regolamento generale della protezione dei dati (GDPR) dell'Unione Europea. Paglieri scrive che “costringere le le aziende private ad una maggiore trasparenza sulle loro procedure di acquisizione e uso dei nostri dati, garantendo al contempo che l'assenso degli utenti debba essere sempre esplicito e mai tacito […] in linea di principio va benissimo”, ma dal punto di vista pratico ciò si è tradotto solo in una “serie di passaggi autorizzativi” e, “in sostanza, continuiamo a regalare i nostri dati a queste piattaforme, solo che ora siamo costretti a sorbirci qualche pop up in più per poterlo fare” (pp.225-226).
Justin E. H. Smith, Irrazionalità : storia del lato oscuro della ragione, Milano : Ponte alle Grazie, 2020
Nonostante il sottotitolo parli di una “storia”, il libro non presenta un percorso cronologico, ma propone una serie di considerazioni e riflessioni dell'autore in ordine sparso (anche un po' troppo sparso) sul tema dell'irrazionalità, “tanto potenzialmente dannosa quanto umanamente inestirpabile” (p.342), con riferimenti a opere letterarie e cinematografiche, aneddoti storici, notizie di cronaca.
Il quinto capitolo (pp.162-201) è dedicato alle pseudoscienze. I sostenitori di queste idee, nota l'autore, vogliono entrare nel campo della scienza, ma non ne conoscono le regole (p.199) e si assiste così alla pretesa “da parte di persone che effettivamente non sanno di cosa parlano” (p.170) di mettere le loro asserzioni infondate sullo stesso piano o anche al di sopra di affermazioni sostenute da prove rigorose. Smith porta come esempi l'astrologia (pp.164-170), il creazionismo (pp.175-177, 180-181), la Terra piatta (pp.181-187) e l'antivaccinismo (pp.187-194). Il creazionismo, osserva l'autore, anche quando si vuole dare una parvenza di scientificità, è “una questione di valori e non di fatti” (p.180): ai suoi seguaci non interessa appurare quali siano i fatti, ma dipingere uno scenario che sia in sintonia con la loro ideologia. Per quanto riguarda i sostenitori della Terra piatta, Smith ritiene che questa idea sia “una minaccia principalmente non perché spiega in modo erroneo il mondo fisico, ma piuttosto perché rappresenta in modo errato il mondo umano e sociale”, offrendo una visione complottista di “forze oscure” che insabbiano la verità e presentando la scienza (quella vera) come “una sinistra cospirazione delle élite” (p.184).
Le pagine più interessanti del libro sono comunque quelle in cui si parla di un curioso strumento descritto da un tale Jules Allix su un giornale nel 1850 che avrebbe permesso comunicazioni rapidissime usando le lumache (pp.241-246): due lumache che abbiano “simpatizzato” tra loro resterebbero “in contatto simpatetico perfetto e istantaneo” (p.243) e stimolando una lumaca si otterrebbe una risposta in quella a lei legata. Associando quindi a ogni lumaca una lettera, si potrebbero, secondo questa balzana storiella, mandare messaggi grazie al “fluido gasteropodico” (p.242) che si diffonderebbe nello spazio con velocità pari a quella dell'elettricità.
LIBRI
Sanne Blauw, Il più grande bestseller di tutti i tempi (con questo titolo), traduzione di Maria Cristina Coldagelli, Milano : Garzanti, 2020
“I numeri possono salvare vite” (p.19) dice il titolo del primo capitolo del libro. E' indubbiamente vero. Con i numeri, per esempio, si valuta la validità di una terapia o l'impatto di un determinato fattore sulla salute. L'autrice comincia il capitolo ricordando, a questo proposito, il pionieristico lavoro di Florence Nightingale (pp.19-23). I numeri possono, però, anche ingannare.
Facendo riferimento anche a casi concreti, come “la futile discussione su QI e colore della pelle” (pp.35-59) e l'inchiesta sui costumi sessuali degli Statunitensi condotta da Alfred Kinsey (pp.63-84), l'autrice mostra come l'apparenza di oggettività delle cifre possa talvolta trarre in inganno e dà suggerimenti su come evitare che ciò accada.
Un “errore classico”, per esempio, è quello di “confondere correlazione e causalità”, ovvero “lo sbaglio che induce a credere che, poiché tra due cose esiste un collegamento, l'una sia automaticamente la causa dell'altra” (p.87).
Stabilire che una valutazione sia fatta in base alla misura di un determinato risultato può sembrare una buona idea, ma c'è un rischio in agguato: chi viene valutato in tal modo sarà portato a porre l'attenzione sulla cifra più che sulla qualità del lavoro che tale cifra dovrebbe misurare (pp.49-50). Un esempio dell'autrice è quello di quando, nel Regno Unito, “fu deciso che i pazienti del pronto soccorso non dovevano aspettare più di quattro ore”. Che i pazienti non facciano attese troppo lunghe al pronto soccorso è positivo, ma se, “per non superare la scadenza, le persone venivano tenute più a lungo nelle ambulanze o ricoverate frettolosamente”, a migliorare era la misura, ma non il beneficio che avrebbe dovuto misurare. Come recita la legge di Goodhart (dal nome dell'economista Charles Goodhart) nella formulazione di Marilyn Strathern: “Appena una misura diventa un obiettivo, cessa d'essere una buona misura” (p.50).
Roberto Burioni, con la collaborazione di Pier Luigi Lopalco, Virus, la grande sfida, Milano : Rizzoli, 2020
Sembra inevitabile che la diffusione di una malattia contagiosa sia accompagnata da voci infondate su presunte modalità di prevenzione e cura. Queste dicerie possono essere pericolose sia direttamente, perché i rimedi proposti possono essere nocivi per la salute, sia indirettamente, perché possono distogliere i malati da terapie o da misure di prevenzione serie. In questo libro, che tratta di malattie contagiose e di come vengono affrontate, sono ricordati alcuni esempi.
Durante l'epidemia causata dal virus Ebola nel 2014, capitava che i parenti dei malati li nascondessero per non farli portare nei centri adibiti al trattamento della malattia rivolgendosi spesso, invece, a “sciamani o guaritori appartenenti alla loro tradizione e alla loro cultura” e affidandosi a sperati, ma ovviamente irreali, “effetti miracolosi di incantesimi e stregonerie”. “Almeno due persone”, viene riferito, “sono morte dopo essersi curate bevendo acqua salata, che si diceva fosse protettiva”. All'intervento sanitario è dunque importante affiancare un'attenzione alla comunicazione: “è fondamentale il ruolo degli antropologi che comunicano, ove possibile anche attraverso l'importantissimo aiuto dei leader religiosi, il rischio reale dell'infezione da virus Ebola agli abitanti dei villaggi e delle comunità.” (p.146)
Con la diffusione dell'Aids, “nascono come funghi anche laboratori clandestini, che negli Stati Uniti propinano ai malati afflitti e tormentati dal terrore della morte le sostanze più stravaganti. Uno dei composti più in voga è il cosiddetto «composto Q», distribuito senza la minima preoccupazione di quali possano essere gli effetti collaterali, che presto si rivelano devastanti” (p.165).
Per la Sars in Cina vengono suggeriti “i vapori dell'aceto bollito” che, secondo la tradizione, “sarebbero efficaci per prevenire le infezioni respiratorie”, ma in realtà non hanno alcun effetto se non quello di fare andare alle stelle il prezzo dell'aceto (p.176).
Viola Bachini – Maurizio Tesconi, Fake people : storie di social bot e bugiardi digitali, Torino : Codice, 2020
I “bugiardi digitali” del sottotitolo sono coloro che usano in internet false identità, gestite direttamente o tramite programmi, per trarre in inganno altre persone. “La rete è invasa dai fake. Ad essere false”, scrivono gli autori, “non sono solo le notizie (le ormai famose fake news […]), ma anche le persone” (p.9).
Può capitare che qualcuno crei uno o più profili da usare nelle discussioni online per far sembrare che altre persone appoggino le sue opinioni o anche, con furbesca tattica, per fare esprimere al proprio sockpuppet (un termine usato nel gergo della rete) delle posizioni contrarie costruite appositamente per poterle smentire e magari per poterlo fare con una frase che reputa possa fare colpo e in questo modo fare la figura di quello che conosce bene l'argomento e sa ribattere a ogni obiezione (pp.15-16).
L'uso di account fasulli può essere un mezzo per mettere in atto frodi, come nel caso, citato nel libro, di un giocatore di poker online che aveva fatto l'iscrizione per alcuni nominativi usando “documenti di identità di persone reali (ignare di far parte della truffa)” e facendo connessioni da computer e indirizzi differenti per ciascun account. “Su queste marionette digitali”, come è ovvio, il baro online “aveva il pieno controllo, potendone vedere le carte e facendole giocare in modo da trarne un vantaggio” (pp.12-13).
Gli account falsi possono anche essere gestiti da programmi, chiamati bot, che simulano le azioni di un utente in rete. Il proprietario di un sito che ospita pubblicità può essere remunerato in base alle da parte di chi visualizza i banner pubblicitari. “Lo standard”, riferisce il libro, “è di circa 15 dollari per mille visualizzazioni”. Raggiungere queste cifre in modo pulito non è facile, ma lo diventa se si usa una botnet, ovvero una rete di falsi utenti comandati da un programma. In un caso cui fa riferimento il testo un raggiro così eseguito con una sofisticata botnet di 600.000 falsi profili aveva fruttato somme straordinarie (“Le stime parlano di circa 3-5 milioni di dollari di ricavi al giorno”) per due mesi prima che la truffa fosse scoperta (pp.14-15).
Essere seguiti da molte persone su internet, per esempio per una pagina di Facebook, un account di Twitter o un profilo di Instagram, può assicurare dei vantaggi. Un politico può vantarsi di avere un grande richiamo e un influencer, come vengono chiamati coloro che hanno raggiunto una certa fama in rete e possono, con i loro post, “influenzare” comportamenti e scelte di acquisti di chi li segue, può spuntare cifre più alte da qualche sponsor. Così è nato un commercio di fake followers (pp.38-49), ovvero “falsi profili automatici che seguono una certa persona con lo scopo di gonfiare il numero di seguaci” (p.38).
Per renderli più credibili, i falsi profili possono anche essere dotati di una foto. Esistono programmi capaci di creare un volto umano in modo molto realistico. I creatori di account fasulli usano anche foto di persone reali che sono all'oscuro di tale utilizzo che è, ovviamente, eticamente e legalmente inaccettabile (pp.25-26). Si può anche “allevare” un bot facendogli, per esempio, scrivere aforismi o frasi melense per fargli conquistare seguaci, aumentando così il suo valore (p.115).
I bot vengono usati anche per tentare di influenzare le votazioni. Ci sono bot “concentrati sul retweet ossessivo” di messaggi, che possono anche essere affermazioni prive di fondamento. Altri sono più evoluti e sono “in grado anche di produrre contenuti e interagire con le persone” (p.125).
Un bot che ha raccolto un notevole successo è quello cui è stato il posto il nome Jenna Abrams. Questo account di Twitter fasullo si era guadagnato una certa popolarità proponendo post divertenti. Con l'avvicinarsi delle elezioni presidenziali statunitensi del 2016, però, “Jenna ha cominciato a scrivere messaggi con un contenuto sempre più politicizzato”, con una posizione favorevole a Donald Trump. Jenna aveva già raggiunto un seguito di 70.000 followers ed era stata citata anche da mezzi d'informazione ben noti come il “New York Times” e la BBC quando infine è stata riconosciuta come un bot e cancellata da Twitter (p.134). Le indagini su questo caso hanno portato a ritenere che Jenna Abrams sia un falso profilo creato in Russia, un paese che si è distinto per l'uso politico dei bot. In Russia è stata creata l'International research agency, conosciuta come “la fabbrica dei troll”, specializzata nel creare falsi profili e diffondere fake news e meme (p.135), come ha fatto ai tempi delle elezioni del 2016 per favorire Trump (pp.135-137).
Se, dunque, “i tentativi di manipolazione sono un fatto ormai assodato e non solo negli Stati Uniti” (p.137), resta da vedere quanto possano influire sulle votazioni. Certamente questa propaganda molto più facilmente raggiungerà e farà presa su chi già aveva una certa intenzione di voto. Resta da vedere quanto possa convincere altri. Un paio di studi citati nel libro sembrano indicare “un impatto tutto sommato modesto” e che “social bot e simili non spostano l'ago della bilancia elettorale”, ma, avvertono gli autori, “da qui a scrivere una sentenza definitiva, tuttavia, c'è ancora tanto da studiare” (pp.138-139).
Alberto Cairo, Come i grafici mentono : capire meglio le informazioni visive, traduzione di Giancarlo Carlotti, Milano : Raffaello Cortina, 2020
I grafici sono strumenti utili per mostrare dei dati, rendendoli più facilmente comprensibili. Se, però, non sono fatti correttamente, possono trarre in inganno chi li osserva.
Un grafico può mentire “mostrando dati dubbi” (capitolo 3). “Un grafico”, scrive l'autore, “potrà sembrare bello, intrigante o sorprendente, ma se codifica dati erronei allora sta mentendo” (p.101). Come un testo scritto, anche un grafico dovrebbe citare la provenienza dei dati che presenta. Giustamente l'autore suggerisce di diffidare “di qualsiasi pubblicazione che non cita chiaramente o non rimanda alle fonti degli articoli che pubblica” (p.102) e questo vale, ovviamente, anche quando i dati sono presentati sotto forma di grafico.
I grafici, dunque, possono mentire con i dati che presentano, ma anche con quelli che non presentano. L'argomento del quarto capitolo sono appunto i “grafici che mentono mostrando dati insufficienti”.
Un esempio è la mancanza di un confronto per capire se la cifra indicata è significativa. L'autore cita il caso del sito di destra Breitbart News che aveva annunciato che a 2139 immigrati regolarizzati con un provvedimento di Barack Obama si era poi revocato il beneficio perché erano risultati membri di gang illegali o perché avevano ricevuto condanne penali. Il numero può fare effetto, ma, nota giustamente Cairo, dovrebbe essere visto confrontandolo con altri. L'autore nota che quel numero rappresenta lo 0,3% del totale dei beneficiati e tale proporzione non è molto alta, risultando molto inferiore a quella che si rileva nella popolazione statunitense (pp.133-135).
Un altro elemento di cui l'autore invita a tenere conto è quello relativo all'intervallo e al livello di confidenza dei dati (pp.163-164 e in generale il quinto capitolo).
Un grafico può mentire non solo con le cifre che riporta, ma per come le presenta visivamente. Per esempio un grafico a barre che non pone la linea di base a zero, ma a una cifra di poco inferiore al dato più basso, potrà far apparire le differenze tra i dati molto maggiori di quello che sono in realtà. Per questo, scrive Cairo, “è preferibile rendere proporzionale l'altezza delle barre alle cifre” (pp.78-79; cfr p.82)
“Valutare se quello che condividiamo pubblicamente sembra e suona giusto”, scrive l'autore, è un dovere dei giornalisti, ma anche “una responsabilità civica” per tutti. Questa valutazione va fatta anche per i grafici (p.215). Saper individuare “come i grafici mentono” è ottima cosa, perché i dati statistici sono importanti e i grafici, usati correttamente, sono uno strumento utilissimo per mostrarli. D'altra parte, scrive l'autore nella postfazione, “come dice il vecchio adagio, è facile mentire con le statistiche, ma è assai più facile mentire senza” (p.225).
Silvano Fuso – Alex Rusconi, Quando la scienza dà spettacolo : breve storia (scientifica) dell'illusionismo, Roma : Carocci, 2020
Lo scienziato vuole spiegare la realtà nel modo più accurato possibile. L'illusionista vuole, invece, nascondere quel che realmente accade per creare un effetto che sorprenda il suo pubblico. Scienza e illusionismo non sono però in contrasto. Il prestigiatore non intende imbrogliare i suoi spettatori tentando di far credere che ha poteri soprannaturali o che è in contatto con gli spiriti. Anzi, le competenze dell'illusionista, abile nell'ingannare onestamente lo sguardo del pubblico, sono utili per smascherare chi usa disonestamente i trucchi.
Il prestigiatore francese Marius Cazeneuve (pp.149-151) “nel 1875, prima negli Stati Uniti, quindi in Francia, si lanciò in una battaglia che lo porterà a combattere con passione contro tutti coloro che approfittavano della credulità umana promuovendo lo spiritismo” (p.150). Nel 1878 tenne una conferenza sullo spiritismo, smascherandone le false pretese, alla Sorbona (p.150). All'Esposizione Universale, Cazeneuve presentò in un numero che ricalcava le esibizioni dei fratelli Davenport, chiarendo che non era opera di spiriti, ma della sua abilità di illusionista (p.151).
Ernesto Patrizio di Castiglione, nelle sue esibizioni, mise in ridicolo medium come i Davenport e Daniel Dunglas Home (pp.151-152).
Un altro avversario di spiritisti e affini fu John Nevil Maskelyne (pp.152-153). Diede anche la sua consulenza al processo contro Henry Slade, un medium noto per le sue lavagnette su cui apparivano messaggi da lui attribuiti agli spiriti (p.152).
Georges Méliès, pioniere del cinema, era anche un appassionato di illusionismo (p.106). A Londra aveva conosciuto il citato Maskelyne, George Alfred Cook e David Devant, che presentavano con grande successo i loro numeri di illusionismo all'Egyptian Hall (p.107). Nel 1902 Méliès realizzò un documentario che svelava i trucchi usati dai fratelli Davenport (p.109).
Anche il più famoso degli illusionisti, Harry Houdini, si impegnò a smascherare le truffe degli spiritisti (pp.153, 155-156).
Il prestigiatore canadese James Randi si è schierato attivamente contro i presunti fenomeni paranormali e le affermazioni pseudoscientifiche (pp.153-154, 199-202). Tra i casi di cui si è occupato ci sono quello di Uri Geller (p.200), il sedicente sensitivo noto anche per la sua pretesa (ovviamente infondata) di sapere piegare i cucchiaini con la forza del pensiero), e quello del controllo sugli esperimenti dell'équipe di Jacques Benveniste sulla “memoria dell'acqua” (p.201).
Silvan ha mostrato come poteva fingere di operare a mani nude come pretendevano di fare i “guaritori filippini” che avevano acquisito una certa notorietà e ha sfidato Gustavo Adolfo Rol, che affermava di avere doti medianiche, a darne prova sotto il suo controllo. Rol non ha mai accettato (p.154).